Bologna : La Monaca di monza all’Arena del Sole

La monaca di Monza, di Giovanni Testori, con Federica Fracassi per la regia di Valter Malosti

Valter Malosti e Federica Fracassi tornano a lavorare insieme portando in scena la feroce confessione di Marianna De Leyva, La monaca di Monza, nella versione di Giovanni Testori, il 14 e 15 febbraio al Teatro Arena del Sole di Bologna.

Come in una soggettiva cinematografica la protagonista, da morta, rivive la vicenda fin dal suo concepimento, avvenuto con un atto brutale del padre su una delicata figura di madre, per poi passare a rievocare il disperato amore per Gian Paolo Osio, vero e proprio eroe nero e sanguinario che finisce i suoi giorni barbaramente trucidato.

Federica Fracassi – Intervista

La monaca di Monza è il capitolo più recente del lungo lavoro che Malosti ha condotto attorno a Testori: un percorso che nasce da un grande amore per lo scrittore lombardo e che accompagna il regista da anni. Nel 2002 in Vado a veder come diventa notte nei boschi ha raccontato il ciclo di affreschi della Vita e Passione di Cristo di Giovanni Martino Spanzotti nella Chiesa di S. Bernardino a Ivrea partendo proprio dal saggio dedicato loro da Testori nel 1958 (G. Martino Spanzotti: gli affreschi di Ivrea). Nel 2008 e 2009 mette in scena Passio Laetitiae et Felicitatis, premio Anct 2009 per la migliore attrice a Laura Marinoni; Le maddalene (da Giotto a Bacon), un progetto con le musiche originali di Carlo Boccadoro; il percorso testuale-visivo Le Monache di Testori, figure monacali femminili da “Tentazione nel Convento” alla “Monaca di Monza”, con Federica Fracassi. Del 2016 è l’adattamento e regia de L’Arialda per il Teatro Stabile di Torino.

Così Malosti racconta la sua lettura della Monaca testoriana: «Marianna De Leyva è una sorta di revenant che strappa se stessa, fantoccio di carta, dalla Storia scritta. La parola si fa carne, rimette insieme le sue “ossa maledette” per dar vita ad una blasfema eppur umanissima resurrezione. La tragica vicenda della protagonista prende forma con un andamento temporale distopico, e come in soggettiva cinematografica, addirittura fin da dentro il ventre materno, dal concepimento, dall’atto brutale del padre padrone, passando per gli opifici e le fabbriche e le macchine e le benne della Monza e della Milano degli anni Sessanta, fino a rivivere il disperato amore, che è il cuore pulsante del testo, per Gian Paolo Osio vero e proprio eroe nero, sconcio e sanguinario che finirà i suoi giorni barbaramente trucidato. L’operazione drammaturgica (l’adattamento è per tre sole voci), e di regia, è volta alla radicale scarnificazione del testo, lasciando da parte quel sentore vagamente “pirandelliano” che si annusa nel testo completo, lasciando che l’andamento da feroce confessione, sviluppata in un dialogo apparente con l’inquisitore, si trasformi in quello che il nucleo del testo in realtà è, e cioè un atto violentemente ed eminentemente poetico, già lì ad esprimere una condizione “germinale” del teatro come prova “religiosa”, “immobile”, “lacerante e senz’esit”, come ha scritto Barbara Zandrino, una interrogazione spinta fino alla blasfema chiamata in giudizio di Dio, con furioso slancio eretico, per aver voluto così la creazione».

MDG

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